VII

METODO E POESIA NELL’«ORLANDO FURIOSO»

Pare chiaro alla coscienza moderna che il problema del Furioso è un problema-limite e che la creazione di quel mondo perfetto è lontana dal ridursi a una pura libertà di giuoco come dal precisarsi in una generale «situazione» desanctisiana o goethiana. Si autorizza sempre piú l’impressione di una lucida volontà poetica sollevata da un respiro fantastico illimitato intorno ad una esperienza essenziale: quella del ritmo vitale nella sua varietà avventurosa, nei suoi contrasti, nei suoi abbandoni, individuata in un motivo poetico che dell’esperienza conserva il piú prezioso calore e si definisce continuamente in proporzioni musicali e pittoriche, in dimensioni superiori, ma non astratte.

Mirava l’Ariosto, come ho accennato nel capitolo precedente, nel suo lunghissimo lavoro, alla creazione di un mondo assoluto che non fosse però una semplice idealizzazione, quasi il ritaglio di una platonica realtà vera di fronte a quella terrestre; mirava ad una sublimazione del ritmo individuato nella vita e fatto centro di una ricostruzione fantastica che deforma la cosiddetta realtà (questo prestanome su cui si è soliti intenderci per comodità, e per tradizione), la alleggerisce, la traduce in termini di musica mantenendo una specie di coerenza organica, di concretezza naturale che danno al mondo orlandesco l’apparenza di piacevole e facile pittura, di descrizione senza sforzo, quasi di calco sottile. Donde nel De Sanctis quella definizione erratissima, ma giustificabile come inadeguato tentativo di risolvere in formula un’impressione indiscutibile, circa la assoluta «obbiettività» dell’Orlando. Obbiettività tutta apparente perché scambiata con una esperienza trasposta in nuove misure, ma ricca di agevole naturalezza e senza gli irrigidimenti di una riduzione platonica, sicché in una descrizione culturale si potrebbe ancor dire che questo mondo «obbiettivo» lo è nella misura in cui rappresenta l’al di là di un naturalismo rinascimentale, quasi l’unico paradiso poetico che quella civiltà poteva sognare. Forma della vita nella sua armonia e varietà in cui tutti i dati fantastici son come l’allegoria rinascimentale di quella aspirazione alla serenità non immobile e neoclassica, ma sperimentata e vitale a cui l’anima dell’Ariosto tendeva. Forma anche della visione complessa e unitaria della realtà e dell’uomo libero ormai dalla polemica antimedioevale dei primi umanisti e basata sull’intelligenza spregiudicata e profonda della irrazionalità della vita (non su di una svalutazione bonacciona di ogni senso tragico

in questa assai piú oscura che serena

vita [...][1]).

Coscienza della irrazionalità che trova il suo canto esplicito nell’episodio del vallone della luna, e confluisce poi gustosamente nel simbolo della ricerca confusa e irresistibile, nel simbolo della selva

ove la via

conviene a forza, a chi vi va, fallire:

chi su, chi giú, chi qua, chi là travia[2],

nel simbolo del lucente palazzo di Atlante dove tutti errano cercando il vario oggetto della loro felicità, il pretesto diverso della loro tensione. Coscienza che non portava ad una soluzione pessimistica e neppure all’amore crociano dell’armonia solo come ad aggiunta serenatrice e rimedio piú o meno stoico, ché anzi pare superfluo mostrare come questo errare, ora rallentato ora esasperato di figure trascinate da una brama inappagata, cosí semplicemente e vigorosamente indicata quasi in un epicureo «trahit sua quemque voluptas», non implica un senso di malinconia, una pietà di goethiani «poeti da lazzaretto», ma una superiore sufficienza e una soluzione di gioia estetica proprio perché il punto di vista ariostesco non è psicologico, ma musicale, e il suo mondo vive della propria ricchezza di ritmo pur nutrito di calore concreto e non si precisa in dramma sentimentale, in rappresentazione ideologica.

Ancor piú che dalla sua lata natura di poetica summa cinquecentesca, l’Orlando, ben al di là delle intenzioni di giuoco dilettevole dichiarate dall’Ariosto nella sua lettera ufficiale al doge di Venezia (giuoco che è spesso un limite gustoso e a volte una inconscia adesione alla tradizionale reazione a forme di contenutismo medioevale), trae la sua vera serietà dall’applicazione di un metodo artistico non di semplice documentazione illustrativa, che nella perfetta resa raffaellesca pare presupporre la ricerca e il tecnicismo piú arduo di un Piero della Francesca, di un Paolo Uccello, di creatori di nuove proporzioni estetiche.

Proprio l’accertamento di un metodo, non di una casuale felicità di ispirazione ingenua, libera anche la totale esteticità dell’Orlando dal pericolo del giuoco e della gautieriana «arte per l’arte», perché la poesia ariostesca, lungi da uno svolazzo calligrafico o da una rapita fantasticheria, trova il suo vero carattere in una interpretazione della vita («impegnata» secondo una terminologia recente) che si svolge, secondo una precisa poetica, in una visione fluente e ritmata che non è quella di un occhio giovesco che vede (come certe formule adoperate per l’Ariosto potrebbero quasi indicare), ma quella di una attività che crea con una coerenza lucida – ma non gelida, stilizzata, bensí calda di esperienza, di naturalezza – un mondo soprareale, staccato e pure umano, mai astratto e mai fumoso.

Il metodo con cui l’Ariosto volle creare il suo mondo è difficilmente riconducibile al favoloso narrare boiardesco e tradizionale e nella sua limpidezza, nella sua pastosa luminosità soprareale; vorremmo accentuare il carattere soprareale (indicazioni che non debbono trascinarci a nessun ingenuo travisamento) per indicare come esso, prendendo un lato, un punto della realtà, ne crei una soprarealtà che in nuove dimensioni fantastiche si ricostruisce nel tono naturale della comune visione del quotidiano.

Ogni poesia ha certo il suo «di là», il suo segreto, e spesso un’apparenza oleografica cela misure e rapporti tutt’altro che descrittivi, ma nel caso dell’Ariosto la nostra accentuazione si deve fare piú recisa e precisa anche se piú contrasta con l’impressione usuale di una pasta traslucida e senza sottinteso.

Prendiamo subito un esempio evidente e perfino esteriore in cui il metodo ariostesco di distacco dalla realtà comune e di creazione nuova e soprareale si scopre, e si scopre una forma di incanto poetico che altrove opera piú nascostamente e con risultati di musica e di visione cosí levigata e luminosa che sotto quella superficie compatta par difficile scorgere qualsiasi intenzione non descrittiva, non narrativa, par quasi che le cose si siano, magari in proporzione di miniatura, portate ad un loro divino svolgersi automatico e perfetto.

Nel canto VIII Ruggero uscendo dal regno di Alcina viene inseguito da un servo con un girifalco, un cavallo, un cane, una bacchetta: elementi fissati con una lucidità in apparenza descrittiva, in realtà destinata a individuarli e illuminarli con la massima evidenza per quando funzioneranno con bizzarria suggestiva a un ritmo eccitato a creare un’aria metafisica e irreale. Infiniti particolari confermano, nel corso di questo episodio alla Piero di Cosimo, questo metodo di incanto ottenuto con mezzi individuati come estremamente realistici e poi trasvalorati nella creazione di una musica agevole e superiore, mossa da cose e gesti magici nella loro apparenza piú naturale. Gesti rapidi che scatenano un ritmo turbinante e gesti che placano improvvisamente ogni movimento come il sorridente finale:

Spinge l’augello: e quel batte sí l’ale,

che non l’avanza Rabican di corso.

Del palafreno il cacciator giú sale,

e tutto a un tempo gli ha levato il morso.

Quel par da l’arco uno aventato strale,

di calci formidabile e di morso;

e ’l servo dietro sí veloce viene,

che par ch’il vento, anzi che il fuoco il mene.

[...]

Quel se gli appressa, e forte lo percuote;

lo morde a un tempo il can nel piede manco.

Lo sfrenato destrier la groppa scuote

tre volte e piú, né falla il destro fianco.

Gira l’augello e gli fa mille ruote,

e con l’ugna sovente il ferisce anco:

sí il destrier collo strido impaurisce,

ch’alla mano e allo spron poco ubidisce.

[...]

Levò il drappo vermiglio in che coperto

già molti giorni lo scudo si tenne.

Fece l’effetto mille volte esperto

il lume, ove a ferir negli occhi venne;

resta dai sensi il cacciator deserto,

cade il cane e il ronzin, cadon le penne,

ch’in aria sostener l’augel non ponno.

Lieto Ruggier li lascia in preda al sonno.

(VIII, 6, 8, 11)

E una volta che si è scoperto sotto la superficie della musica ariostesca il metodo che la tende nelle sue pieghe piú riposte e realizza questo tono di soprarealtà, nei casi piú evidenti che potrebbero anche confinare con fantasie piú azzardate e poco significative, se ci si vuol mantenere nel giudizio di una serenità facile e descrittivistica, l’attenzione a questa alta operazione fantastica scopre ovunque una poetica in atto che, tranne momenti di sutura, controlla e giustifica ogni movimento della ricca sinfonia ariostesca, di quell’accordo di colore e musica in cui la misura suprema non è affatto la «bella natura», in sé e per sé, la bella proporzione fine a se stessa. Che anzi anche nell’episodio citato l’uso della deformazione ci indica bene come l’Ariosto sia lontano da forme illustrative e descrittive e si distacchi da ogni «bello verosimile» in favore di una linea vitale e tutta ritmo colorito.

Si rilegga il verso 6 della quarta ottava del sopra citato canto «cavalcava un ronzin non troppo adorno», in cui nel ritmo un po’ claudicante e comico è chiara l’intenzione di un rallentamento anche nell’immagine ambigua e allungata, bizzarra e pur non sfocata che par corrispondere a ciò che nella pittura quattrocentesca è la deformazione. La deformazione (cioè la riprova piú sicura in mondi perfetti della libertà dell’artista dalla pretesa copia della natura, l’alterazione di misure comuni non per trovata intellettualistica ma in rapporto a misure piú intime che nei grandi non mancano di legare in profondo col senso piú concreto della realtà) si avverte nell’Ariosto anche dove egli sembra esaminare accademicamente un nudo od un oggetto, sí che perfino un verso apparentemente descrittivo come:

quello ippogrifo, grande e strano augello

(VI, 18, v. 1)

fa vedere all’occhio esperto un che di favoloso e di enorme, di deformato, che risulta dalla posizione staccata e quasi goffa, rallentata dalle parole.

Naturalmente, allo stesso modo che la deformazione del volto della Primavera botticelliana ha un significato piú alto, nei limiti del naturalismo rinascimentale, nella sua solidità lontana dalle fantasticherie, di certi azzardi postromantici, i segni del distacco ariostesco son poco vistosi e sfumano spesso in intonazioni popolaresche, in lentezze da cantastorie in cui il favoloso, soprareale di alta classe può essere scambiato per puro canto di facile fiabesco, di gustosa cantilena:

grandi eran l’ale e di color diverso,

e vi sedea nel mezzo un cavalliero.

(IV, 5, vv. 1-2)

Un altro mezzo di distacco dalla piatta realtà adoperandone un lato ed esaltandolo a pretesto di creazione fantastica si ha nell’uso ariostesco di colori puri fortemente distinti e rilevati oltre un semplice gusto pittoresco, come entità superiori e metafisiche:

dove toccò, sempre in vermiglio tinse

l’azzurro, il verde, il bianco, il nero, il giallo.

(IX, 70, vv. 5-6)

E le stesse iperboli che a volte possono sembrare un annuncio di secentismo o un puro gusto di caricatura collaborano in realtà a questa operazione di distacco che scopre la sua assenza quando l’Ariosto decade a ripetitore di luoghi comuni petrarchistici. D’altra parte bisogna sempre insistere sul risultato di questo distacco, di questo incanto naturale, sulla sua lontananza da puro calligrafismo e da semplice gusto burlesco o paradossale, e comunque da una rigidità intellettualistica. Si pensi alla leggerezza con cui gesti di magia si fanno sorridenti e semplici e sembrano perfino agevolare la nostra modesta fortuna fisica, ampliare in un respiro senza limite i desideri umani di un prolungamento della realtà in possibilità di sogno libero, ma concreto come la realtà:

Tosto che ’l ladro, o sia mortale, o sia

una de l’infernali anime orrende,

vede la bella e cara donna mia;

come falcon che per ferir discende,

cala e poggia in uno atimo, e tra via

getta le mani, e lei smarrita prende.

Ancor non m’era accorto de l’assalto,

che de la donna io senti’ il grido in alto.

(II, 38)

Impressioni fantastiche e soprareali di salti, di voli seguiti come una realtà fisica superiore alla nostra, ma non opposta, pervasa dallo stesso colore (il tono del «naturale meraviglioso» individuato dalle ricerche romantiche culminate nelle formule di Momigliano e Ambrosini) di concretezza che nessun «realista» saprebbe ottenere:

Orlando non risponde altro a quel detto,

se non che con furor tira d’un piede,

e giunge a punto l’asino nel petto

con quella forza che tutte altre eccede;

et alto il leva sí, ch’uno augelletto

che voli in aria, sembra a chi lo vede.

Quel va a cadere alla cima d’un colle,

ch’un miglio oltre la valle il giogo estolle.

(XXIX, 53)

Ad esempio massimo di questa liberazione dal mondo sensibile per la creazione di un sopramondo di perfezione musicale e pure caldo di sensibilità, lieve di una leggerezza insieme soprareale e non astratta, non allucinata, di questo incontro sublime di un metodo attento e di una sensibilità concretissima, ricca di esperienza vitale, è l’episodio del Silenzio con la sua introduzione di prologo in cielo e la scoperta della Discordia col suo surrealistico vestito.

In quel grande episodio il tono fra burlesco e furbesco non deve ingannarci (la fiaba è uno dei mezzi ariosteschi, ma da sola può diventare spesso piú un limite che una conquista o il modulo di una musica piú abbreviata, a sua volta rilevata quando la fiaba è irrorata dalla musica piú generale dell’Orlando), perché la grandezza di questo regno del Sonno è tutta nella sua impalpabile e pur solida continuità, nella sua liberazione in una suggestione di soprasensibilità che continua e liricizza la sensibilità piú ordinaria. In cui vivono i due vivaci simboli di questo metodo poetico, l’Oblio e il Silenzio, il primo come affetto da una intima disgregazione che lo pervade fino all’azione automatica e maniaca, consistente nel tenere lontano chiunque, il secondo rappreso in quei due particolari che aprono una grande ala di silenzio quasi sua voce e suo colore. Anche l’Angelo che parla «pianamente» all’orecchio del Silenzio è pervaso da questa magia soprareale e sensibile, e nel suo discorso stesso il ritmo si adegua, è lieve, le parole vengono soffiate, la suggestione accresciuta da un altro «chetamente», raccomandazione logicamente inutile, per fare agire indisturbato questo miracolo di liberazione dal mondo comune che prosegue poi nella 97 (XIV). Dentro la nebbia un mondo sonoro, ai suoi limiti un incanto che lo rende muto come un acquario:

facea girare un’alta nebbia in volta,

et avea chiaro ogn’altra parte il giorno;

e non lasciava questa nebbia folta,

che s’udisse di fuor tromba né corno [...].

(XIV, 97, vv. 3-6)

Resa perfetta di soprareale con utilizzazione di impressioni sensibili che può giungere fino al fantastico riassunto di una grottesca dissociazione di udito e vista:

Le campane si sentono a martello

di spessi colpi e spaventosi tocche;

si vede molto, in questo tempio e in quello,

alzar di mano e dimenar di bocche.

(XIV, 100, vv. 1-4)

Naturalmente questo metodo poetico, che si innalza alla tensione di una linea vibrante anche nelle parti piú solenni e riposate del poema e non esclude affatto la potente vita di sublimati sentimenti, ha i suoi limiti in certi giuochi troppo preziosi, quasi ghiribizzi e rabeschi non incoerenti con il tessuto generale ma troppo calcati e rilevati in una prova eccessiva di abilità: pericoloso indice di uno stilismo di altissima classe, ma fine a se stesso nella sua squisitezza quasi gotica.

Cosí nella descrizione dell’assalto di Parigi, prima che si inizi la robusta sinfonia di Rodomonte, zampilla ad un tratto un giuoco preziosissimo anche se in perfetta simpatia con l’aria festosa di un primo movimento eccitato e marziale:

I cerchii in munizion non son rimasi,

che d’ogn’intorno hanno di fiamma il crine:

questi, scagliati per diverse bande,

mettono a Saracini aspre ghirlande.

(XIV, 112, vv. 5-8)

L’Ariosto è stato colpito dalla luce che poteva svilupparsi dalle teste dei Saraceni fantasticamente inghirlandate da questi strani cerchi di fuoco gettati dagli assediati e certo l’effetto è quanto mai gustoso e tutt’altro che stonato nel contesto (né si pensi a condannare questi momenti come parentetici e indugio in vista di una compattezza narrativa), ma su questa strada autenticamente ariostesca ci si può spingere ad un eccesso di giuoco stilizzato.

Cosí nel XIII alle ottave 38-39 assistiamo ad un miracolo di virtuosismo stilistico, di superamento di ogni interesse di pietà in attenzione lucida che può degenerare in forme di realismo magico troppo autonomo ed insistente o in fregi troppo abbondanti e preziosi:

A chi ’l petto, a chi ’l ventre, a chi la testa,

a chi rompe le gambe, a chi le braccia;

di ch’altri muore, altri storpiato resta:

chi meno è offeso, di fuggir procaccia.

Cosí talvolta un grave sasso pesta

e fianchi e lombi, e spezza capi e schiaccia,

gittato sopra un gran drapel di biscie,

che dopo il verno al sol si goda e liscie.

Nascono casi e non saprei dir quanti:

una muore, una parte senza coda,

un’altra non si può muover davanti,

e ’l deretano indarno aggira e snoda;

un’altra ch’ebbe piú propizi i santi,

striscia fra l’erbe, e va serpendo a proda.

O come nel IX, in cui la lancia di Orlando si trasforma in uno spiedo aggravato di fantocci e il tragico si scioglie in un familiare disegno scherzoso di una mirabile facilità:

Il cavalier d’Anglante, ove piú spesse

vide le genti e l’arme, abbassò l’asta;

et uno in quella e poscia un altro messe,

e un altro e un altro, che sembrâr di pasta;

e fin a sei ve n’infilzò, e li resse

tutti una lancia [...].

(IX, 68, vv. 1-6)

È chiaro che una certa sazietà può nascere da un eccesso di questi alti esercizi e che, con le debite distanze, si pensa sul piano del poema quasi a supremi risultati di cartone animato, di grottesco piacevolissimo piú che ai toni orlandeschi piú raggiunti.

Quando, presa coscienza della ricchezza dell’arte ariostesca e della sua «coscienza» per nulla innocente, penetriamo nel mondo dell’Orlando, ci sentiamo attratti in un viaggio che si svolge complesso e vario in uno spazio e in un tempo di originalissima dimensione: come ho già accennato nel capitolo precedente, spazio illusorio e pur non cartaceo, fatto di misure gigantesche e di lontananze rapidamente raccorciate, cui collabora un tempo ora fugace ora rallentato, intimo alla libertà della memoria e pure chiaro e fluido come la divisione delle giornate reali.

La geografia del viaggio ariostesco è ricca e sfumata, a volte preciso paradiso naturalistico come il giardino di Alcina, a volte favolosa nostalgia di una Europa medioevale che all’Ariosto veniva dall’epopea cavalleresca: le brume settentrionali, i deserti aridi della Spagna, la dolce terra di Francia. Atmosfera romanza che porta il suo fascino speciale nella chiara serenità rinascimentale, la sua natura di presupposto della formazione fantastica dell’uomo moderno, di riferimento sicuro ai sogni, al bisogno di errare e di evadere; atmosfera che collabora suggestivamente con il paesaggio ariostesco che il poeta evoca con estrema semplicità, ma su misure soprareali mai pretendendo di farne un protagonista dichiarato del poema. Non insiste cioè a definirlo come autonomo e, anche quando siamo di fronte a paesaggi precisi e definiti (l’isola di Alcina, il castello di Atlante), essi non ci vengono imposti mai come fine ultimo di una descrizione, ma sono sempre pronti a sfarsi, a dileguare in quella specie di carta geografica fantasiosa e non grottesca che rende favolosi gli spazi, le proporzioni della terra pur nutrendosi di un senso caldissimo di spazio vissuto, di aria impastata di luci, di ombre, di oggetti.

Il paesaggio ariostesco è perciò sempre intonato nella sua varietà: a volte assume l’aria di un volo sulla carta animato da brama di viaggio, come nel XXXIII (96-101), in cui, dopo le avventure di Ullania, l’Ariosto si sbizzarrisce per ben sette ottave in un rapido raccorciamento di distanze punteggiate di nomi in un elenco sempre piú denso, gustoso per i nomi italianizzati e piú per lo sfogo esuberante di questo vagare senza scopo immediato. A volte invece tutto si riduce ad un brevissimo accenno che supera il puro gusto pittoresco in piú larghe prospettive e in valore musicale.

Nomi esotici adoperati con estrema familiarità come se quel mondo sterminato fosse percorribile in poco tempo (e il tempo stesso è del tutto approssimativo sí che avventure brevissime non vengono circoscritte e si allungano in un tempo indeterminato: «una» sera, «un» giorno e lunghi viaggi si puntualizzano potentemente), geografia che è motivo di continua freschezza per la poesia ariostesca nel suo continuo dislocarsi in ambienti diversi che agiscono a sollecitare il ritmo della fantasia, a caricarlo di nuovi moti e di nuove suggestioni ed arricchendosene in un’unica atmosfera avventurosa e serena.

A volte i paesaggi fluiscono in movimento (e questa è la loro giustificazione piú naturalmente musicale), a volte si coagulano brevemente non in quadri a sé stanti, ma in giri piú calmi che funzionano da preludio a scene piú mosse.

Cosí nel VI (35), il paesaggio fiabesco ed orientale del castello di Alcina che precede la gioiosa pesca e l’avventura di Astolfo:

E come la via nostra e il duro e fello

destin ci trasse, uscimmo una matina

sopra la bella spiaggia, ove un castello

siede sul mar, de la possente Alcina.

Trovammo lei ch’uscita era di quello,

e stava sola in ripa alla marina;

e senza rete e senza amo traea

tutti li pesci al lito, che volea.

E anche nelle famose quattro ottave del VI (20-23) in cui si presenta per la prima volta il paradiso alcinesco, in quel paesaggio quasi troppo dolce, quasi di una raffinatezza polizianesca resa piú sinfonica e piú matura, dopo la presentazione emblematica del nuovo motivo naturalistico

(culte pianure e delicati colli,

chiare acque, ombrose ripe e prati molli)

(VI, 20, vv. 7-8)

e la pienezza delle due ottave centrali, nell’ultima, dopo le agili manovre di Ruggiero, il paesaggio dell’isola riappare con tanta maggiore suggestione in una potenza essenziale resa con accenti piú lineari e puri:

poi lo lega nel margine marino

a un verde mirto in mezzo un lauro e un pino.

(VI, 23, vv. 7-8)

Dopo la profusione vegetale di prima, quei tre alberi, mirto, lauro e pino, sono come dei colori puri che ci permettono una distinzione maggiore di tutto il quadro su quello sfondo di mare con una prospettiva piú profonda e meno sfumata.

Nel senso piú sottile del paesaggio non mancano brevi idilli con un maggior limite di rabesco autonomo e prezioso, ma quasi sempre il loro valore rifluisce nel ritmo generale che supera ogni possibile chiusura calligrafica (vd. XI, 45), e il pittoresco è quasi sempre colto con estrema rapidità, senza compiacenza di esercizi descrittivi –

Il manigoldo, in loco inculto et ermo,

pasto di corvi e d’avoltoi lasciollo.

(XXXII, 9, vv. 1-2)

– o è superato in musica da simmetrie che insieme sono traduzione del gusto di proporzione rinascimentale ed astrazione stilistica:

Tra duri sassi e folte spine gía

Ruggiero intanto invêr la fata saggia,

di balzo in balzo, e d’una in altra via

aspra, solinga, inospita e selvaggia;

tanto ch’a gran fatica riuscia

su la fervida nona in una spiaggia

tra ’l mare e ’l monte, al mezzodí scoperta,

arsiccia, nuda, sterile e deserta.

(VIII, 19);

o serve di accrescimento fantastico di un paesaggio come in questo quadro cui viene aggiunta quasi una nuova dimensione con l’introduzione di una voce (il frinire della cicala) che in un silenzio opprimente di estate meridionale e desertica delinea spazi profondi e soprareali senza decadere in particolare prezioso marinistico:

Percuote il sole ardente il vicin colle;

e del calor che si riflette a dietro,

in modo l’aria e l’arena ne bolle,

che saria troppo a far liquido il vetro.

Stassi cheto ogni augello all’ombra molle:

sol la cicala col noioso metro

fra i densi rami del fronzuto stelo

le valli e i monti assorda, e il mare e il cielo.

(VIII, 20)

In questi paesaggi cosí diversi (da quelli meridionali ed orientali come la bellissima immagine di Damasco da Gentile Bellini, a quelli di un Nord burrascoso che prevarrà nei Cinque Canti) e pur cosí unitari nella loro generale funzione di musica, agiscono dei personaggi, delle individuate figure poetiche. Ma, contrariamente alla impressione comune suggestionata da un canone critico tradizionale, nel Furioso i personaggi non vivono una loro vita separata e drammatica né stanno a prestar nome a precisi sentimenti, a velleità dell’autore, quanto piuttosto vivono della linea generale del poema rifuggendo da uno stacco di oggettiva individualità, immedesimandosi con i paesaggi, con le avventure.

Si può anzitutto facilmente dimostrare come i personaggi ariosteschi siano lontanissimi da una rigida coerenza che li isoli e li renda riconoscibili nel ricordo come «persone» al di sopra di quella musica in cui fungono da nuclei di incontri, di pretesti per le avventure della fantasia sulla linea del ritmo vitale. Angelica, ad esempio, è una figura assai vaga, la «bella donna», una forma di femminilità, di bellezza che scatena fughe e inseguimenti, ma che poi nell’episodio di Medoro appare tenera e materna per poi improvvisamente scomparire in maniera grottesca e senza il minimo interesse da parte del poeta a giustificare i trapassi e le offerte di questa figura. Al poeta bastava una prima intuizione (una forma di bellezza, suprema, meta di «brama» e quindi di avventure, di movimenti musicali) e subito cominciava ad arricchirla, a svilupparla non psicologicamente, non drammaticamente, ma musicalmente, poeticamente secondo il tema dominante.

Cosí quegli spunti di paura femminile, di astuzia, di egoismo, di vanità che coesistono con la grazia del suo riposo nel bosco fiorito, pur cosí concreti ed umani, non sono dati di un carattere da legare tra loro in una coerenza psicologica, ma sono inizi di svolgimenti fantastici, di avventure poetiche.

Anche in Orlando a volte c’è solo il «conte», il magnanimo paladino chiuso nella sua severa missione, nella sua amarezza di uomo superiore, a volte il pazzo scatenarsi di una mostruosità senza limiti, a volte una figura comica che provoca giuochi, rovine gustose, morti acrobatiche.

Cosí i personaggi piú curati da un punto di vista drammatico, come Bradamante, sono quelli piú sbiaditi e grigi, persi in quelle lamentazioni che sono i passi piú brutti del poema e che, per sovrapposizione intellettualistica, vorrebbero essere invece momenti di sviluppo e di approfondimento drammatico, sul tipo della Fiammetta boccaccesca. Anzi queste lamentazioni psicologiche e retoriche sono spesso il segno dell’affievolirsi della ispirazione ariostesca dopo momenti di piú alta intensità in cui la massima forza umana vive per farsi poesia senza residui.

Spesso i lamenti sono esercizi petrarchistici da ricollegarsi all’esperienza delle Liriche e costituiscono pezzi di letteratura di alta scuola, e spesso ad ogni modo indicano la copertura dell’assenza di piú seria poesia, il cedere dell’ispirazione piú forte proprio nel prolungarsi innaturale, antiariostesco di una maggiore tensione sentimentale, di un maggiore impegno. Si pensi ad Olimpia (figura anche questa assai diversa come «persona» nei due episodi), alla grande scena dell’abbandono e al precipitare della musica nelle lunghe ottave in cui l’Ariosto diluisce querimonie che tendono semmai al melodrammatico, al canoro (X, 25-33), mentre, ben lontano da una indifferenza calligrafica, l’Ariosto maggiore costruisce la sua umanità piú viva in una specie di sopramondo anche di sentimenti profondi ma distaccati da un semplice calco di processo psicologico, sostituito da una coerenza di visione e di musica in cui la passione, l’amore vitale si sono tutti fusi.

Esperienza e intelligenza psicologica profondissime (si ricordino i presentimenti di Fiordiligi nel XLI, «e questa novità d’aver timore / le fa tremar di doppia tema il core», XLI, 33, vv. 7-8) sono superate, adoperate per quel calore che esse possono portare, non per una deduzione attenta e conseguente di caratteri.

Perché non la linearità di un atteggiamento psicologico stava a cuore all’Ariosto, ma la presentazione di densi umani pretesti di vita fantastica e musicale per la quale egli adopera, ove riescono utili, anche dati psicologici mai fine a se stessi o parte di una descrizione obbiettiva. Come avviene nel grande episodio della pazzia di Orlando (che Casanova declamava piangendo!), in cui elementi drammatici e psicologici contribuiscono ad una sinfonia possente che erompe in gridi, in moti solenni e tetri, e, solo quando Orlando parla e si lamenta, decade a teatro, in senso melodrammatico. Brevi e potenti sono i movimenti lirici piú nutriti di drammaticità, intolleranti di uno svolgimento che si fa poi inevitabilmente melodrammatico proprio perché tende anche nel suo decadere ad una approssimazione musicale.

«Quanto cuore aveva l’Ariosto», disse il De Sanctis[3] per l’episodio di Zerbino, ma in realtà occorreva dire: che forza poetica intera, indivisa! Ché anche in quell’episodio (XXIV, 76-87) tutta la forza passionale di quelle poche ottave è cosí evidentemente lirica che solo cosí la sua presenza si afferma e si supera, pronta a decadere dove si scende al descrittivo, al particolare psicologico. E dove il ritmo crea il mirabile inizio

(Cosí, cor mio, vogliate (le diceva),

dopo ch’io sarò morto, amarmi ancora),

(XXIV, 78, vv. 1-2)

il tessuto logico psicologico è assai debole e noi siamo indotti a non pensare al discorso quanto a lasciarci riempire dall’emozione che nasce dai vari nuclei poetici.

È dunque alla musica che tutti i mezzi espressivi dell’Ariosto tendono, alla continuità di una sinfonia varia, ricca di motivi, libera di pesantezze contenutistiche e problematiche, trionfo assoluto di quell’amore di una perfezione calda, di un sopramondo non astratto e platonico, di un ritmo puro e non schematico che è alla cima della poetica ariostesca. Quando si adoperano la parola musica o la parola «visione» per la poesia, si può fare un implicito paragone con altre arti, spesso arbitrario (le applicazioni che non mancano delle teorie wölffliniane ad esempio) e ricercato per sfuggire ad una difficile precisazione nel proprio campo specifico, ma è certo che nel caso dell’Orlando la parola musica indica, proprio con l’aggiunta di visione, la natura vera di una poesia che non tende tanto a concentrazioni liriche in «parole» o a vasti tessuti narrativi sentimentali, drammatici, ma ad un fluire colorito di ritmo con l’asservimento di ogni altro elemento fantastico ad effetto di sviluppo sinfonico a cui l’apparente effetto narrativo soggiace colle sue brusche interruzioni, con le sue riprese (mascherate come ironica e gustosa imitazione dei cantastorie), che sono in realtà temi ritornanti con un ordine che non è logico (secondo Carducci e Panizzi), ma evidentemente musicale. Ed è perciò che la famosa «ottava d’oro» non deve essere sentita troppo isolatamente: essa è certo dotata di quell’incanto che una misura base sapeva assumere nei classici, ma in realtà l’Ariosto ha asservito quella unità metrica al rapido svolgimento della propria linea che si arricchisce di quella caduta e di quella ripresa che c’è fra la chiusa e l’inizio di due ottave e spesso ne ha superato i limiti anche sintatticamente quasi a provare che la sua regolarità era intima, capace di spezzarsi e costretta solo ad una multiforme varietà di movimenti che l’ottava inquadra e raccoglie nella sua apparente monotonia.

Perciò l’attenzione dell’Ariosto non si restrinse alla parola o al verso, ma si distese nella linea melodica in cui parole e versi soggiacciono ad una fluida unità che non cerca luci isolate in isolate espressioni.

Vi sono poeti per cui ogni parola è un poema e testimonia il loro sforzo ad esaurirvi tutte le proprie capacità; vi sono poeti per cui la parola è inizio di un getto sensuale e irriflesso; ma vi sono poeti come l’Ariosto per i quali l’impasto musicale è cosí compatto e continuo che le parole, pur mantenendo la loro evidenza, aderiscono completamente ad un movimento senza ambizione di un loro rilievo se non nel ritmo a cui collaborano.

Continuità musicale che è stata avvertita implicitamente anche da tutti i critici che hanno affermato l’agilità ariostesca, quel divino prendere, interrompere, riprendere i diversi motivi senza la minima durezza e senza l’apparenza di un calcolo compositivo di temi celato in un volubile giuoco di fantasia.

Cosí anche i momenti narrativamente importanti vengono a celarsi in frasi senza pretesa, senza sottolineatura, vive veramente nella loro misura musicale che trasforma ogni processo psicologico o narrativo in processo di proporzioni nuove anche se soffuse della tenera aria della naturalezza.

Per esempio quando Pinabello induce Bradamante ad affidarsi alla pertica che egli tenderà nell’abisso, pronto a lasciarla cadere, tutta la vita di quella compiacenza delittuosa sembra ridursi alla semplice parola «sorride» che già ha una intensità di colore e di suono piú che di drammaticità, ma poi fluisce nell’agevolezza di tutta la frase in un suono nativo e semplice che lega al sorriso la spontaneità incantata con cui Pinabello compie il suo gesto:

Sorride Pinabello, e le domanda

come ella salti; e le man apre e stende,

dicendole [...]

(II, 75, vv. 5-7)

Che tutto si risolva in musica, che ogni altro valore sia funzionale, come funzionale, anche se preminente, è lo stesso valore pittorico, visivo (colore e linea in movimento di musica), si potrebbe provare in ogni modo con esempi di sequenze, di ottave, d’interi canti.

Come si giustifica, per esempio, la struttura del I canto se non musicalmente? Quella fuga di Angelica in cui ogni novità narrativa serve non tanto a destare l’interesse quanto a provocare nuovi movimenti, nuovi ritmi piú accelerati o piú spianati, come ugualmente si giustificano tutti gli improvvisi cambiamenti di «filo» che narrativamente disturberebbero se non avessero il valore di cambiamento di tema al momento in cui esso decade o al momento in cui il sopraggiungere di un nuovo tema complica ed arricchisce la musica generale portandole nuovi toni e nuovi colori.

E la stessa giustificazione regge cosí l’ampia costruzione di un canto come gli scherzi brevi e squillanti quali la bufera del canto II (28-30) o le larghe pause di apparenza descrittiva in cui (ad esempio II, 34-35) immagini, proporzioni ritmiche contribuiscono a creare una melodia ricca di direzioni anche visive, ma viva piú nei particolari religiosi dell’accordo che ne crea fra rallentato e smagato: non pittoresco ed idillico come avverrebbe se l’intento fosse descrittivo, non emotivo come avverrebbe se l’Ariosto curasse effetti narrativi e drammatici. E chi guardi piú da vicino entro l’ottava, entro il verso, trova una cura minuta di estrema sapienza fonica e al di sopra di una semplice mimesi di «armonia imitativa»; a cui qualche volta l’Ariosto potrebbe perfino indulgere per effetti bizzarri e grotteschi come nel canto III, 8, in cui la musichetta tra misteriosa e comica della maga Melissa è preparata proprio da un verso pieno di note scherzose in un andante maestoso: «un picciol uscio intanto stride e crocca», con le due ultime parole ridotte a piacevole effetto di suono comico.

Nella musica continua e varia del poema hanno una funzione speciale le sentenze iniziali (posteriori ai canti relativi, secondo la constatazione del Debenedetti) che sembrano portare in una luce piú ambigua il tono morale delle Satire, ma che in realtà servono proprio a rinsaldare ancor piú l’unità non esteriore del poema con la loro musicalità di saggezza fra scherzosa e solenne, a preparare in una esclamazione piú ampia la melodia che poi s’incanala in serrati movimenti, a precisare con un impegno tutto risolto e perciò non moralistico il senso della dialettica armonia della vita legato al ritmo vitale che anima la musica ariostesca.

E una importanza particolare hanno vicino alle avventure centrali, ai temi fondamentali, quelle numerose «novelle» che vengono ad inserirsi nel corso del poema con un’abbondanza che fa ripensare all’uso cervantesco nel Don Quijote.

Queste novelle, che potremmo estrarre solo per polemica contro chi vede unicamente la linea del racconto e l’importanza dei personaggi principali come in un ordinario schema di romanzo di secondo ordine, meritano una attenzione che di solito non viene loro concessa appunto per il preconcetto di una loro secondarietà e quasi di una loro minore serietà rispetto alla trama centrale considerata da un punto di vista tradizionale che non manca neppure nella considerazione di un Ariosto come narratore.

In esse anzitutto confluisce con trapasso piú circostanziato la «sapienza» ariostesca, specie la sapienza amorosa che non volendo creare una precettistica o una casistica (il che non avviene precisamente nemmeno nelle sentenze iniziali che semmai vivono dell’agevolezza con cui un problema morale vi appare comunque risolto), si trasforma in pretesti piú determinanti di brevi ritmi concisi e serrati. Nessuna idea romanzesca a sostenere la musica che in sostanza segue lo stesso libero ritmo fantastico anche in quelle apparenti confluenze romanzo-moralità che potrebbero far sentire nella novella di Marganorre la soprastruttura artistica di una condanna del misoginismo o nell’episodio di Olimpia quella di una condanna del tradimento coniugale.

Ma qui la poetica ariostesca pare indulgere ad un lavoro piú minuto e quasi miniaturistico, alla ricerca di ritmi piú raccorciati, di movimenti piú leggeri e affrettati, di sentimenti stilizzati in tutta la loro complessità e in cui pare rifugiarsi piú autonomo quel gusto tra melodrammatico e fiabesco che l’Ariosto supera di solito nello stesso volo della sua fantasia, del suo viaggio e nel vento sano e robusto di movimenti piú larghi e meno preziosi.

Certo nelle novelle c’è anche un’esteriore funzione narrativa; come nella novella di Fiammetta narrata prima della morte di Isabella si potrà vedere l’intento di far risaltare la sublime fedeltà della donna gentile dopo l’affermazione dell’infedeltà di tutte le donne o meglio di far sbocciare quell’atto generoso dal pieno della leggerezza ed istintività della vita. Ma piú evidente ragione di vita è il loro carattere di distinzione piú preziosa di motivi con la loro aria quasi da Chartreuse de Parme, con le loro figurine sottili, con i loro paesaggi scarnificati come nelle novelle di Norandino, del giudice Anselmo o di Marganorre.

Alla lettura, ad esempio di quest’ultima (canto XXXVII), si sente subito chiaramente come la vasta musica orlandesca ha qui qualcosa di piú angusto e di estremamente raffinato e che la precisione ariostesca tende a bordature piú sottili, a inquadrature piú minute e calligrafiche, a un procedere meno aereo e piú gustoso nella sua miniaturistica incisività e nel suo breve grido melodrammatico, nella sua minuscola scenografia:

Con gran silenzio fece quella notte

seco raccor da vent’uomini armati;

e lontan dal castel, fra certe grotte

che si trovan tra via, messe gli aguati.

Quivi ad Olindro il dí le strade rotte,

e chiusi i passi fur da tutti i lati;

e ben che fe’ lunga difesa e molta,

pur la moglie e la vita gli fu tolta.

(XXXVII, 55)

La novella «truce», ricca di scene lugubri –

come vittime, tratte ai cimiteri

dei morti figli, e di sua man scannate.

(XXXVII, 84, vv. 3-4)

– e di decisioni quasi machiavelliche, è tutta portata in questo ritmo breve in cui le immagini stesse coerentemente si impiccoliscono in limiti chiari, in orli secchi e frizzanti, ed ogni floridezza si fa fragile e sottile (gli stessi nomi Olindro, Tanacro, Cilandro, Drusilla sembrano deformazioni volute di floridi nomi teatrali verso un sapore piú acidulo), collaborando a questa musica che ha un altro nitido esempio nella parte piú novellistica dello stesso episodio di Olimpia:

Io dietro alle cortine avea nascoso

quel mio fedele; il qual nulla si mosse

prima che a me venir vide lo sposo;

non l’attese che corcato fosse,

ch’alzò un’accetta, e con sí valoroso

braccio dietro nel capo lo percosse,

che gli levò la vita e la parola:

io saltai presta, e gli segai la gola.

(IX, 41)

Si avvertono quasi movimenti di opera buffa e di miniatura lucida e tagliente e il gusto di ritmi rapidi e abbreviati farebbe considerare le «novelle» quasi come le predelle in cui l’artista cinquecentesco scarica il suo amore di narratore, se poi non sentissimo la coerenza meno gerarchica che lega gli episodi accennati alla grande linea del poema, alla sua unica avventura di «inchiesta», di viaggi, di ritmo vitale.

Uno studio particolare sulle tre edizioni e sugli autografi e cioè su «come lavorava l’Ariosto»[4], sulla elaborazione minuta successiva alla prima edizione, confermerebbe sostanzialmente ed animerebbe di testimonianze insistenti queste linee generali e vedremmo come il poeta anche nel rifacimento di un singolo verso mirava non ad una semplice illuminazione o precisazione classicistica di resa realistica (e anche se spesso le sue erano correzioni linguistiche ciò non era fatto in omaggio ad una semplice ansia di purismo rinascimentale, piuttosto per coincidenza di una organicità espressiva con una necessità di eliminazione di quanto anche all’orecchio attento doveva in quel nuovo piano apparire stonato), ma piú generalmente ad un riconoscimento della sua intenzione verso un mondo di nuove proporzioni e di perfetta coerenza, verso un alleggerimento fantastico contemporaneo ad una sensibilizzazione sempre piú concreta e vitale. Sin dal nuovo inizio trionfale, sereno, agevole che sostituisce il piú contorto e duro

Di donne e cavallier gli antiqui amori

le cortesie ecc.[5]

delle edizioni ’16 e ’21, ogni sostituzione mira a rendere piú continuo il tessuto musicale e ad arricchirlo di suggestioni non tanto nel senso narrativo e immaginativo quanto proprio nella sua capacità di suono colorito, di alleggerimento del ritmo soprareale e semplice. Il fantastico non diviene come potrebbe apparire a prima vista piú superficiale, piú raffaellescamente uguale[6], ma piú sollevato e disteso come certe goffe durezze delle prime edizioni si trasvalorano nelle deformazioni ampie, smisurate che abbiamo notato in principio.

– Che dirai tu se subito ti giugno? –

E gli spinse l’augel ch’egli avea in pugno.

Quel augel vien con tal prestezza d’ale […]

diceva in VIII, 5-6 e nel passo corrispondente del ’32 tutto si è fatto piú mosso, piú ritmato e piú sciolto:

– Che dirai tu se subito ti fermo?

se contra questo augel non avrai schermo? –

Spinge l’augello: e quel batte sí l’ale [...].

E alla 8 dello stesso canto mentre nella edizione del ’16 si trovava

e ’l destrier col stridor sí impaurisce,

che né alla man né al spron troppo ubidisce

e nella edizione del ’21 eliminando il bruttissimo intoppo del «col stridor» rimaneva il secondo durissimo «al spron», nella edizione del ’32 giungeva a questa soluzione apparentemente facile e in realtà tutta divenuta musica:

sí il destrier collo strido impaurisce,

ch’alla mano e allo spron poco ubidisce.

Se la stessa osservazione fatta già dal Debenedetti a proposito degli autografi circa la mancanza di abbozzi in prosa (e la contemporaneità dunque di ispirazione e programma, di fantasma precisantesi e della sua natura ritmica) sottolinea sempre meglio questo carattere di vocazione musicale, lirica, non narrativa o drammatica, piú da vicino il ripudio di precisazioni definitive per precisazioni di armonia e di durata di suono si impone alla nostra attenzione di lettori.

Non che sia assente nelle correzioni ariostesche la preoccupazione della maggiore evidenza del fantasma e dell’immagine, ma questa è rivista sempre piú come immagine in movimento e come colore mai coagulato e gustato a sé, ma come parte di un movimento musicale in cui tende a perfettamente risolversi.

Tanto che si potrebbe azzardare persino un accentuarsi di armonia raffaellesca e di smussamento di punte piú quattrocentesche nel lavoro dell’ultima edizione. Mentre in realtà il metodo non cede a un semplice gusto di floridezza, ma si fa piú sottile e celato nell’impasto luminoso a cui toglie ogni grumo vetroso, ogni durezza di suoni, ogni intoppo di precisazione troppo logica o narrativamente prosastica.

La cura di armonia e di suggestione che presiedeva alla creazione del capolavoro dell’ottava 80 del canto XXII (nelle ed. ’16 e ’21, XXIV nella ed. ’32) con il suo paragone della bocca languida e la rosa (paragone che supera lo schema tradizionale in un originalissimo movimento di immagini e musica), nell’ultima edizione ha colto il suo «tono», ha realizzato pienamente in uno dei punti piú alti della poesia ariostesca la sua poetica quando ha sostituito il verso 6 che suonava

impallidisca in la siepe spinosa

con quello definitivo:

impallidisca in su la siepe ombrosa.

Ebbene è qui evidente che il processo di rielaborazione interna compiuto dall’Ariosto nell’intenzione di illuminare i punti piú opachi del poema tende in questo caso non solo ad una immagine infinitamente piú suggestiva e coerente con le immagini di languore, di idillio elegiaco, di pallore di tutta l’ottava (la «spinosa» era l’immagine piú comune, piú pittoresca e piú esteriore nel senso piuttosto boiardesco di immagini di colore; «ombrosa» porta invece con sé una ricchezza di direzioni di luce e di misurata sentimentalità), ma anche insieme alla soluzione di una durezza in quel magnifico verso che giunto a metà veniva interrotto nel suo fluire dall’intoppo di «in la» e dall’inizio aspro e consonantico dell’aggettivo finale. Tanto piú che la grandezza di tutta l’ottava e specialmente nel paragone consiste appunto nell’accordo di queste immagini di pallore soave con la soluzione musicale a fiotto continuo, a slargo aereo che risolve la sentimentalità addensata precedentemente.

Ricerca di una concretezza e di una dimensione soprareale equilibrata e risolta nel ritmo piú vario e piú agevole che insiste non casualmente soprattutto sui finali delle ottave, dove la tensione accumulata nei primi versi si scarica al di là di una conclusione narrativa e di una mimesi realistica in una accentuazione di musicalità, di suono volante e fluente ben oltre i limiti di un accompagnamento o di un recitativo, arricchendolo spesso di un enjambement che spezzi il suono troppo battuto a doppio dei versi baciati.

Nella edizione del ’16 la strofa 73 del XXIX si chiudeva:

cosí piegar pregando il Pagan puote,

a cui d’amore eran le fiamme note,

e nella edizione del ’21 (str. 74 dello stesso canto):

cosí piegar pregando il Pagan puote,

ch’ha le fiamme d’amor per prova note [...].

Ed ecco che nella edizione del ’32 (str. 74 del XXXI) tutto si scioglie con minore preoccupazione di complessità logica e con mirabile affabilità e leggerezza:

e seppe sí ben dir, ch’ancor che fosse

sí crudo il re pagan, pur lo commosse [...].

La correzione della edizione del ’21 non era evidentemente riuscita ed aveva anzi peggiorato e aggravato il difetto della edizione del ’16, e allora l’Ariosto aveva completamente cambiato, ben piú preoccupato della linea musicale che di quella narrativa e psicologica a cui la prima e la seconda versione davano indubbiamente maggiore contributo[7]. Primato concesso alla coerenza di movimento di suoni e colori che si rivela anche in trascuranze e distrazioni dovute alla preoccupazione principale per cui ad esempio, nella novella di Norandino l’occasione di introdurre il nome di Lucina insieme alla sua qualifica è perduta e il nome compare, narrativamente ingiustificato, per l’esigenza di una migliore resa musicale alla ottava 26.

Naturalmente, specie nei punti di piú alta tensione, la preoccupazione musicale non sacrifica altre possibili cure ed anzi coincide anche con i vari momenti di solennità drammatica che non resisterebbe fuori di questa sua superiore realtà e spesso nasce proprio insieme al bisogno di una individuazione migliore del ritmo. Uno dei punti piú alti della pazzia di Orlando è l’ottava 111 del canto XXIII (XXI nelle prime ed.): nelle prime edizioni essa cominciava sbiadita e informe:

Piú e piú volte, rilesse quel scritto (’16)

Piú volte e piú lesse e rilesse il scritto (’21).

Nella edizione del ’32 il sublime è raggiunto di colpo con una progressione di numeri indicante la tensione sentimentale, ma soprattutto chiaramente mirante ad una precisazione potente del ritmo che prepara lo scoppio del tema della pazzia:

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto [...].

E ugualmente alla 131 il miglioramento della espressione psicologica è legato all’alto grido musicale che nasce nella edizione del ’32. Nella edizione del ’16:

Egli, al fin stracco, travagliato, e molle

di sudor tutto, poi che non risponde

la lena al sdegno ardente, a l’odio, a l’ira [...].

Nella edizione del ’32:

E stanco al fin, e al fin di sudor molle,

poi che la lena vinta non risponde

allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,

cade sul prato, e verso il ciel sospira.

Né la famosa ironia ariostesca su cui venne a perdersi tutta la vecchia critica si può isolare nelle rielaborazioni ariostesche come senso a sé stante e spolverino di humour intellettualistico, ché il brio di una piú vibrante linea funzionale, lo scivolo arguto di certe false unzioni nascono quando da velleità confuse o da piatte espressioni ironiche si passa alla coerenza di ritmi agili e sornioni in cui non le parole, ma i movimenti contano.

Et altri, ch’a cadere andò nel mare,

che quindi era lontan piú di sei miglia,

e che morí per non saper nuotare,

e il corpo si trovò presso a Marsiglia;

altri, ch’un santo lo venne aiutare,

di cui digiunò sempre la vigiglia.

Queste considerazioni sul volo fantastico del «garrulo eremita» scagliato lontano da Rodomonte (str. 7 dei canti XXVII e XXIX rispettivamente della prima e della terza edizione) si snelliscono in un movimento saporito e brioso quando le investe un ritmo continuo e sciolto:

et altri, ch’a cadere andò nel mare,

ch’era piú di tre miglia indi lontano,

e che morí per non saper notare,

fatti assai prieghi e orazïoni invano;

altri, ch’un santo lo venne aiutare,

lo trasse al lito con visibil mano [...].

E perfino una parola (per quanto le sostituzioni di parole isolate siano significativamente rare) non scompagna la sua nuova presenza da un effetto intenzionale di suono, come chiaramente il senso piú arguto si unisce a un suono piú acuto e sottile in quell’abilissima sostituzione nella terza edizione alla 20 del canto XXIX di «misteri» a «mestieri»[8].

Ugualmente l’eliminazione di forme troppo prosastiche (come alla 72 del XXVII poi XXIX:

et uccideva e stroppiava con busse

chi, per vietarlo, temerario fusse

trasformato in:

qual lascia morto, e qual storpiato lassa;

poco si ferma, e sempre inanzi passa)

e del pittoresco eccessivo per un’eleganza piú compatta e snella è guidata e giustificata da un raddrizzamento del ritmo, lontano dalle gustosità di tipo boiardesco e dalla semplice grazia lirica polizianesca. Non solo si toglie qualche accenno troppo particolare anche se felice, ma si fa filare la frase come quando, dall’inizio brioso, ma stentato della 36 del VI,

Corron veloci i scrignuti delfini,

a bocca aperta segue il grosso tonno,

li capidogli e li vécchi marini [...],

si passa nell’edizione del ’32 ad uno dei movimenti piú vividi del poema, animato quasi da un delicato erotizzamento del grottesco mondo marino nelle linee perfette di suoni in simpatia che adeguano questa corsa vogliosa:

Veloci vi correvano i delfini,

vi venía a bocca arta il grosso tonno;

i capidogli coi vécchi marini [...].

Dunque piú che la precisa scommessa di cui parla Contini, l’impresa dell’Ariosto si rivela chiaramente anche alla luce delle sue correzioni per quella audace poetica che al di sopra delle suggestioni letterarie di mondi preesistenti scontate senza superbia da un artista tanto originale quanto aderente al suo milieu letterario, nutrita delle piú raffinate ricerche quattrocentesche che culminano appunto in un metodo di nuove dimensioni soprareali, le spiana in visione musicale e costruisce le «entità» umane sul ritmo puro dell’esperienza vitale, leggere, luminose, naturali perché portate in proporzioni perfette e non intellettuali dopo aver perduto il loro peso realistico ed essersi preclusa la via ad una idealizzazione platonica, ad una mimesi simbolica.

Il caso limite dell’Orlando, che spesso è apparso gratuita fantasticheria di divino fanciullo o calligrafia senza sostegno vitale (e si è parlato di Rossini quando semmai bisognava parlare di Mozart!), non può discendere cosí dall’ammirazione generica, dalla cronaca intellettuale delle formule approssimative alla storia del commento non puntuale che le giustifica, se non si risolve nella coscienza di un metodo che ha presieduto alla costruzione di quel mondo poetico in vista di una linea a cui figura e musica collaborano in equilibrio di concreta vita poetica.

Perugia-Roma 1946-47


1 Orlando Furioso, IV, 1, vv. 7-8.

2 Orlando Furioso, XXIV, 2, vv. 3-5.

3 Lezioni zurighesi cit., p. 187.

4 È il titolo dell’ottimo articolo con cui G. Contini recensí il saggio di S. Debenedetti sugli autografi dell’Ariosto («Testi inediti e rari», I, collana del «Giornale storico della letteratura italiana», Torino, 1937). Poi in Esercizi di lettura, Firenze, Le Monnier, 19472, pp. 309-321.

5 Per le varianti delle diverse edizioni ci rifacciamo all’ediz. dell’Orlando Furioso secondo l’edizione del 1532 con le varianti delle edizioni del 1516 e del 1521, a cura di S. Debenedetti e C. Segre, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1960. Per quanto riguarda il primo verso, l’ediz. del ’16 ha li, che solo nel ’21 diventa gli.

6 Cosí può apparire piú monotono e patinato: «quando / giunse tra lor, non tenne il brando a lato» (VIII, 3) dell’edizione del 1521 di fronte al corrispondente del ’16 «e quando / tra lor fu, il brando si cacciò da lato».

7 È da osservare che nel processo di revisione il poeta non torna dalla ’21 alla ’16 considerando le correzioni della seconda edizione o come definitive o come unica base di ulteriore discussione.

8 Si noti che le correzioni relativamente piú numerose riguardano le finali delle ottave. Ad esempio nel canto XXVII (poi XXIX) le correzioni di finali d’ottava sono quelle piú numerose: precisamente tredici (2, 14, 19, 22, 23, 25, 38, 41, 58, 60, 61, 62, 72). Ed è ovvia la ragione di questa attenzione particolare.